Ieri a Padova è stata conferita la laurea in Ingegneria biomedica alla memoria di Giulia Cecchettin, la studentessa morta l’11 novembre scorso nella veneziana Fossò, all’età di 22 anni, per mano del giovane Filippo Turetta. Alla cerimonia erano presenti la rettrice, Daniela Mapelli, e la ministra dell’Università e della Ricerca, Anna Maria Bernini.
di Rossana Rizzitelli
Il diploma di laurea è stato consegnato dalla rettrice ai familiari di Giulia. Alla cerimonia hanno preso la parola il padre Gino, che voleva onorare nel migliore dei modi il percorso accademico di sua figlia con questo atto d’amore, e la sorella Elena, che ha ricordato quante cose avrebbe potuto fare Giulia se non le fosse stata tolta la possibilità di farlo.
Il dolore e la paura che il nome di Giulia Cecchettin suscita sono profondi, non possono essere compressi dai contorni freddi e distaccati della parola femminicidio. La sua morte è un problema sociale e non si può ridurre ad una primitiva caccia del maschio che ha la pretesa di dominare chi o cosa ritiene gli appartenga.
Giulia era troppo giovane per comprendere e riconoscere i segni del patriarcato, parola che genera orrore quasi come un fantasma e che sembra aver confusamente ingurgitato tutte le brutture della società.
La morte di Giulia ricorda quanto sia importante la necessità di rompere l’ossessiva ripetizione di schemi mentali, sia maschili che femminili, ormai palesemente pericolosi e violenti, per cui non c’è più posto in una società che discute animatamente di efficacia dell’educazione all’affettività.
Uomini e donne, ugualmente responsabili, hanno bisogno di allontanare completamente il fantasma del patriarcato o, per meglio dire, la consuetudine al vecchio dualismo sterile e anacronistico dei loro ruoli soffocanti.
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